E’ scritto che “…. miele e nocciole, prodotti precipui delle nostre terre, composero il torrone.” E questo lo diceva uno delle parti nostre, vale a dire di una zona a sud nel reame di Napoli. E un altro di qui, nei primi degli anni sessanta , se ne stette un bel po’ nella vicina Africa, e poi anche più giù a tracciare strade e a scavare fossi, con pale grandi quanto una casa, diceva lui.
Se ne tornò con un buon gruzzolo e con una moglie scura che ci fece vedere come doveva essere fatta una donna, allora che qui da noi di gente a coscia lunga poca se ne vedeva; e ci raccontò pure che anche laggiù c’era il torrone, fatto con piccoli datteri neri, già di per sé gustosissimi, ed un miele molto scuro. L’impasto andava sotto il fuoco in larghi cocci rotondi e bassi, e poi, tratto bollente, finiva tra due riquadri di foglie di palma che immediatamente gli si richiudevano intorno. Il giorno dopo il prodotto era pronto e assolutamente trattabile, infatti le palme gli avevano ceduto il loro lievissimo e profumato strato superficiale. L’amico spalatore concludeva la relazione tecnica assimilando quello al nostro torrone croccante, e annotando che anche il nome che lì lo designava, “l’alcupaita”, più o meno rendeva la voce che ancora lo identifica qui da noi: “la copeta”. Ma in quanto alla qualità e alle proprietà non c’erano proprio paragoni da fare. ”Quello era torrone!”, sospirava ancora. E chiamava a testimoni altri, anch’essi delle nostre zone, che erano stati laggiù con lui, e che a fine settimana, lustrati e scrimati, correvano dalle Naomi di quelle terre. “E con quel torrone lì…” E con quel torrone lì, largamente disposto dalle loro ospiti, giurava e giurava che i balli duravano fino a mattina e poi si cominciava daccapo. E se la piangeva ancora e sul serio quella specialità, come sul serio gli venivano le lacrime agli occhi per quella sua donna che per scampare alla suocera, ai parenti e al vicinato che qui le era toccato, se n’era tornata laggiù.
Quindi il giro del torrone sarebbe cominciato proprio dalle parti dove l’amico nostro beneficiava di quella varietà miracolosa e, vettore l’ISLAM, esso arrivò tanto in Sicilia quanto in Spagna. Rimane da vedere se in Sicilia ci fu portato direttamente dai Musulmani d’Africa nell’827, che vi arrivarono per dare man forte al duce siciliano Eufemio contro i Bizantini dell’imperatore Costantino, o se recuperò successivamente, cioè quando ce lo portarono, avendolo già assunto essi stessi, e sempre dagli Arabi, gli Spagnoli del regno d’Aragona (1282) , i quali poi furono anche in Sardegna (1326), e nel Meridione d’Italia quando finì la regina Giovanna (1442). A sostegno della primogenitura del torrone da attribuire ai compatrioti di Maometto si consideri che è chiaramente l’arabo “Qubbait” che troviamo a designare una rievocazione storica che si tiene all’inizio di giugno in un paese della provincia di Enna, a Troina, ed è intesa come la cavalcata della “ Kubbaita”. Essa si riferisce ad una cacciata di Saraceni da parte dei Normanni, ed il torrone è a perno della ricorrenza. Ed è la stessa linea di discendenza che, bello bello, intuiva il nostro nostalgico conterraneo quando attestava la somiglianza di quella tanto corroborante “ alcupaita” con la nostra “copeta”, egregiamente così differenziandosi da quanti risibilmente fanno riferimento alla latina “cuppedia”, che più di generiche ghiottonerie non indica. E se “ la copeta” oggi è limitata ad ambiti paesani del Sud, nel 1549 la troviamo attestata ai massimi livelli in quel di Ferrara, registrata dal maestro di casa, scalco ducale, e poi ambasciatore Cristoforo di Messisburgo. Questo gran cerimoniere, nel suo “Modo dì ordinar banchetti, apparecchiature, ecc.”, che all’epoca era la Bibbia dello stare a tavola, anche perché il pulpito era la corte del cardinale Ippolito d’Este, per un apparecchiamento prevede:“ … di copette e turoni in pezzi piatti 5”.
E così ci assicura che è proprio del torrone che si parla, e che esso già allora era articolato in differenziazioni alle quali certamente avevano concorso le presenze spagnole. Come di certissima filiazione dallo spagnolo “turron” sono i “turoni” lì citati.Ma intanto vale ben considerare che c’è tradizione di torrone ovunque c’è la disponibilità naturale dei componenti, cioè miele e apposita frutta: e questo dalla Sicilia alla Calabria, dal Sannio e dall’Irpinia alla Sardegna e alla stessa Spagna. E anche l’ambiente fisico è ovunque più o meno rispondente. Stante ciò, ben regge l’ipotesi che il torrone, come portato arabo-spagnolo, sia stato solo occasione di conferma del già presente, con inevitabili commistioni e sovrapposizioni. A conforto di tanto si pensa al Piemonte che, pur non avendo avuto strette presenze arabe e spagnole, dà gran nome al torrone, poiché oltre alle api che anche lì fanno il loro lavoro dispone di una sua ottima nocciola. Torrone sicuramente non indigeno, fino a prova contraria, sarebbe proprio quello del Lombardo Veneto (Cremona, dove abita?), dove, scarseggiando gli elementi primari di esso, lo si ebbe per via completamente indotta. In quel di Milano gli Spagnoli ci stettero più di un secolo e mezzo, vale a dire dalla metà del secolo XVI fino al 1713 e, da “brava” gente quale erano, oltre che insegnare la modestia alle fanciulle, con quel che segue, come ci fa sapere mastro Alessandro, è ben pensabile che vi abbiano conferito anche la delizia di cui ci occupiamo. E allora fa bene il nostro a tenersi basso e a non raccontarci la storiella del torrone inventato qui in Irpinia, in occasione delle nozze della figlia del feudatario di Summonte, bensì a dire che “miele e nocciole composero il torrone”. E si tratta del miele di tutte queste colline dalle fioritissime primavere e delle nocciole che qui sono tanto intrinseche da dare finanche il nome a queste terre:-Avellino- è da – “avellana”- , la nux abellana, appunto.