Il vino nella letteratura italiana, fonte d'ispirazione e simbolo; Roberto Righetto intervista il critico Gibellini.
Parini che assapora e al contempo contesta il tocai del Giovin signore, Verri e Goldoni che conversano nei caffé «illuminati», Porta e Belli che preferiscono le osterie dove ci si fa beffe del potere. E ancora, Manzoni e Verga, Carducci e Pascoli, Leopardi e D'Annunzio: quanto e come è presente il vino nella letteratura italiana moderna?
Se lo è chiesto Pietro Gibellini, docente di letteratura italiana all'università di Venezia e filologo cui si devono l'edizione critica di Alcyone e commenti all'opera di Belli, Manzoni, D'Annunzio, Pirandello, apparsi nelle collane di classici dei maggiori editori italiani, da Adelphi a Einaudi, da Garzanti a Mondadori. Ora pubblica da Garzanti Il calamaio di Dioniso, in libreria da domani: un tentativo riuscito da parte di un critico letterario che ha provato a seguire una pista tematica inedita, per condurre i lettori nelle enoteche dei nostri grandi scrittori.
Professor Gibellini, cominciamo da qualche esempio curioso della sua ricerca...
«Beh, gustiamo Montepulciano e Claré negli scritti di Paolo Rolli, Borgogna e vin di Cipro in Goldoni, Groppello e Moscato nel milanese Porta, Est-est-est e Genzano nel romano Belli. Lo scapigliato Rovani ama Bordeaux e Malvasia, Carducci, Chianti e Valtellina, D'Annunzio, champagne e vin di rose…».
Ma come traevano ispirazione dal vino, questi scrittori?
«Metastasio a Vienna e Leopardi a Bologna rimpiangono i vinelli di casa loro, Carducci e Pascoli bevono più del necessario, a rischio di cirrosi. Intendiamoci, però: non ho voluto scrivere un libro sulle loro abitudini personali, ma ho usato la chiave del vino per penetrare nei loro testi. Quante immagini di ebbrezza, ad esempio, troviamo nell'opera di D'Annunzio, che non era certo privo di vizi, ma era comunque astemio».
Quale atteggiamento hanno dunque gli scrittori verso il vino?
«Si confrontano con la natura ambigua del dono di Diòniso, nettare divino e liquore satanico capace di consolare dai dolori più atroci o di scatenare le passioni più torbide, di aiutare a fuggire dal mondo o a godere appieno la vita. L'atteggiamento cambia da epoca a epoca, anzi da autore ad autore. Parini vede nei vini pregiati graditi al Giovin signore l'emblema del vizio, dell'ozio, del privilegio. Gli illuministi, come i fratelli Verri e Goldoni, al vino preferiscono il caffè, come luogo oltre che come bevanda capace di stimolare la ragione senza offuscarla. Romanticamente vicini al popolo, Porta e Belli propendono verso le osterie, dove si dileggia il potere».
Vuol dire che attraverso il vino si parla di politica?
«Anche. Prendiamo i Promessi sposi. Confrontiamo la scena nella quale, alla tavola di don Rodrigo, si celebra l'"Olivares dei vini" e si grida "ambrosia" e "impiccateli", con quella in cui, all'osteria della Luna piena, Renzo si ubriaca di vino e di utopia sociale (tante bocche, tanto pane, gli dice lo sbirro che vuole intrappolarlo). Nei due episodi l'eccitazione prodotta dall'alcol fa emergere due opposti progetti politici, uno repressivo e classista, l'altro rivoluzionario e pre-sovietico, entrambi giudicati dal cattolico liberale Manzoni farneticazioni da ubriachi. Dopo la "spranghetta", Renzo, nella sua parabola morale tutta ascendente, non beve più fuor di misura: quando corre nella Milano appestata in cerca di Lucia, rifiuta il vino dell'oste, rigetta il "gran fiasco" che gli offrono i monatti e soltanto al lazzaretto, da padre Cristoforo, accetta un bicchiere di vino con una scodella di minestra, rompendo un digiuno che è soprattutto spirituale».
Insomma, attraverso il vino il cristiano e realista Manzoni passa dalla realtà al simbolo, dal profano al sacro…
«Scherzi del vino. Anche nel naturalista e miscredente Verga, scopriamo una simbologia eucaristica del vino, che fa di Cavalleria rusticana il racconto di una Pasqua senza resurrezione, dove Turiddu (il cui nome vale "piccolo Salvatore") beve con gli amici il calice amaro della sua ultima cena».
Con il vino, allora, l'autore marca il destino dei personaggi?
«Sì, come con il vino di 'Ntoni Malavoglia. Ben di Dio dei poveri nelle novelle, il vino diventa nel romanzo un paradiso artificiale e una trappola senza via d'uscita. A conferma che se per il credente Manzoni la vita è un purgatorio, per il disincantato Verga (o per i suoi rusticani) sembra essere decisamente un inferno: Renzo, dopo la sbornia, gira alla larga dalle osterie (senza però diventare astemio), 'Ntoni finisce preda di quel vino amaro».
Dunque, sotto il torchio dell'indagine tematica, anche i capolavori più noti rivelano un aspetto insospettato…
«È proprio vero. Il tema del vino mi ha portato al cuore del pensiero degli scrittori. Carducci brinda a un Satana vitale e progressivo, Pascoli cerca l'oblìo nel bicchiere e nella poesia, D'Annunzio, dopo aver celebrato le sue ebbrezze analcoliche e Apollo, nella chiusa di Alcyone si converte alla causa di Dioniso proclamando di voler inebriarsi per "finir di fine insana". E non sono mancate le sorprese, come quella di un Leopardi pensatore dionisiaco, che esalta addirittura l'ubriachezza; o quelle relative ai cosiddetti minori, come Giacomo Zanella, il prete vicentino che ai vini ghibellini degli scapigliati e degli anarchici contrappone il vino guelfo della pace agreste, e allo sterile alloro la pia vite che allieta la vecchiaia».