Stando ad un articolo dell’Espresso del giugno scorso sono 250 mila in Italia gli agricoltori sotto i 34 anni, un quarto di quel milione di persone che vive di agricoltura.
Molti di questi, naturalmente, sono viticoltori.
“Un piccolo esercito che ha poco in comune con l’immagine dei vecchi lavoratori della terra. Sono diplomati e laureati, parlano di formule chimiche con la stessa naturalezza con cui navigano il web. Parlano di equità, sono solidali, biologici (che vorrà dire?) impegnati”.
E allora, direte voi?
Allora fa una certa impressione constatare che nonostante il cambio generazionale, i temi sociali, dopo tre anni di frequentazione assidua sul web, e dopo avere scritto alcuni post su questi argomenti (legati a doppio filo al settore enogastronomico e quindi non definibili off-topic), vengono praticamente snobbati.
Non solo su Vinit, sia chiaro, ma un po’ ovunque.
L’equità e la solidarietà, insomma, decritta dall’Espresso, mi è sfuggita.
Diverso il discorso del biologico, ma con qualche sfumatura imbarazzante.
Visioni diverse, culture diverse, prospettive diverse, direte voi.
A me invece fa una certa impressione constatare che anche lo sfruttamento dell’immigrazione nelle vigne non interessa molto le coscienze.
Né la tutela della sicurezza dei lavoratori. Né l’uso di veleni in agricoltura, anche biologica.
E oltre alle aziende mi riferisco, e rivolgo in particolar modo, a quei blogger/appassionati che usano andare in giro per cantine.
Dove rivolgono il loro sguardo durante le loro visite?
Prestano attenzione agli impianti di sicurezza?
Vedono le cose che non vanno?
Le segnalano ai produttori?
Nei casi più gravi le segnalano alle autorità?
Ne parlano nelle loro belle recensioni infiocchettate come bomboniere?
Perché il valore di una azienda, quello che la rende di “alto spessore”, passa anche da queste cose, non solo dal buon vino, dal panorama mozzafiato o dalle cantine trecentesche.
Leggo rassegnato di lunghe e articolate degustazioni che sembrano poesie, frasi soavi in un italiano dannunziano di appassionati e sommelier sempre attenti a cogliere la minima, fugace sfumatura, descrizioni strappalacrime, ma poco attente nel vedere quello vedrebbe anche un bambino: l’impiego di macchinari obsoleti, non dotati dei necessari sistemi di sicurezza, quadri elettrici raffazzonati, l’uso ancora troppo scarso di idonei indumenti e di mezzi personali di protezione, la distribuzione di sostanze chimiche dannose per la salute e per l’ambiente eseguita senza rispettare le indicazioni fornite dalle ditte produttrici.
A volte eseguite da personale straniero, non in regola, con poca o nessuna conoscenza della lingua in cui le indicazioni di sicurezza sono scritte, quella italiana.
Giusto per fare qualche esempio.
Fatti che riguardano soprattutto le piccole e medie aziende dove dato l’esiguo numero di dipendenti risultano assenti i rappresentanti sindacali.
A giudicare dal numero di segnalazioni, uguale a zero, sembra che questa del vino sia invece un’isola felice. Dove al massimo s’inciampa in una cassetta d’uva a bordo campo e si cade in un’aiuola di margherite disturbando l’Ape Maia.
Ma sappiamo tutti che non è così.
Sappiamo tutti che queste cose vengono viste, tanto sono lapalissiane, ma sono colpevolmente taciute.
Il “vivi e lascia vivere” della generazione passata insomma … che è altro dalla generazione equa e solidale descritta dall’Espresso.
Perché non basta essere giovani, avere una laurea, parlare in inglese e andare al Vinitaly per avere una coscienza.
Ci vuole altro.
Ci vuole coraggio. Quello di superare l’omertà.
E di dare le @, o i bicchieri, o le stelle se preferite, anche su questi aspetti.
Chiudere un occhio per spuntare un trattamento di favore, magari uno sconto, una magnum in omaggio, una accoglienza cordiale, è qualcosa di più che disdicevole.
Argomento che riguarda, con i dovuti distinguo, anche le recensioni dei ristoranti, sia chiaro, dei winebar, delle osterie … dove a volte a buttare l’occhio si vedono cose non proprio condivisibili.
Sia chiaro che non è il successo dei miei post ad impensierirmi, a scanso di equivoci, ma il disinteresse quasi assoluto verso questi che penso siano contenuti importanti, visto di cosa trattano.
E non mi si dica di andare a sottoporli a Beppe Grillo o a Michele Santoro, questi argomenti, come a volte mi è stato consigliato, perché sono argomenti che riguardano noi, voi, tutti.
Non mi si dica che qui si parla di vino, perché il vino è fatto anche di queste cose: è fatto anche dagli immigrati sottopagati, spesso in barba alle norme sulla sicurezza (l’agricoltura, insieme all’edilizia, è il settore più colpito dagli incidenti sul lavoro), e qualche volta il vino è prodotto anche con l’ausilio di sostanze nocive.
Anche quello biologico … nonostante non se ne parli.
Viene da pensare, a vedere il vuoto di commenti a certi post, che siano argomenti un po’ tabù. E i tabù si sa, è nel linguaggio che perdurano più a lungo, quasi che a parlarne certi fantasmi prendano forma, consistenza.
Viene da pensare che tutti, chi più chi meno, sia coinvolto in certi usi e costumi.
Eppure so, sappiamo che non è così. Che c’è chi se ne fa una ragione di vita del rispetto dell’altro. Ma il silenzio autorizza a pensarlo.
Di certo il silenzio non mi fa pensare che fra le migliaia di aziende presenti su Vinit non ce ne sia una, dico una, che non abbia mai assunto un extracomunitario, magari in regola e con tutti i crismi.
Che non abbia mai avuto un incidente sul lavoro o che non desti qualche preoccupazione dal punto di vista della sicurezza.
E allora perchè non parlarne? Perchè non condividere quella esperienza? Potrebbe essere utile, non trovate?
Se è vero che il grado di civiltà di un paese si misura dal suo welfare allora credo che lo spessore di un network di settore come questo si possa misurare anche dal suo interesse verso temi che “lo interessano da vicino”, come i temi sociali, culturali e ambientali ad esso riconducibili.
Come questi che ho elencato.
Perchè un network non è un’astrazione, è fatto dagli uomini e dalle donne che lo frequentano. Da noi.
Per questo devo dire che resto senza parole di fronte a questo vuoto, a parte queste che dopo tanto tempo mi decido a scrivere, più come una linea per tirare le somme che per altro.
Eppure l’attenzione verso questi temi è un plusvalore per l’azienda.
E quelle aziende che rispondono a questi requisiti devono essere premiate, mentre le altre, che non lo sono, devono essere penalizzate, anche dalle nostre segnalazioni.
Perché la concorrenza sleale è anche su queste cose che si gioca: un conto è produrre secondo tutti i crismi, nel rispetto dei lavoratori e dell’ambiente, cosa che ha un costo, altro è produrre infischiandosene, se non di tutto di buona parte, che ha un altro costo.
Il silenzio, invece, è quello che domina su tutto.
Su Vinit come altrove, sia chiaro.
Bisogna andare nei siti istituzionali (confagricoltura, ministero, etc.) per trovare queste notizie, peraltro generiche, perlopiù statistiche, e quindi di nessuna utilità per segnalare chi le prende alla leggera.
Oppure nel singolo blog generalista di qualcuno che però, ahinoi, sembra una goccia nell’oceano, isolato com’è dalla rete.
Un silenzio che parla, e racconta di un mondo chiuso in se stesso.
Superficiale, reverenziale, prono.
Apparentemente vivo e vitale, giovane, allegro e giocoso, moderno, ma in fondo vecchio, grigio, sonnacchioso e distratto, e in fondo un po’ triste.
Il che, secondo il mio parere, non lo fa volare alto.
Un network cieco e sordo a certi argomenti ripropone il macrocosmo della nostra esistenza, finendo per non far distinguere più se ci si trova tra individui che condividono gli stessi obiettivi/valori o in una stazione della metropolitana, dove accade ogni cosa, sotto gli occhi di tutti, nel disinteresse di ognuno.
Questo post, e concludo, non vuole essere un “flame”, una critica verso Vinit, anche perché sul web non c’è affatto di meglio, anzi, ma solo una riflessione a voce alta, perché “quel meglio” sul web è possibile costruirlo, insieme.
Anche se davvero non mi faccio molte illusioni.
Ma non mi dispiacerebbe che fosse Vinit ad iniziare questo nuovo trend, che ci impone una responsabilità più alta di quella avuta finora, che vada oltre le suggestioni che il vino è in grado di dare, e che non può più attendere.
Perché come diceva quel genovese, “anche se ci crediamo assolti, siamo tutti coinvolti”.
Ciao
Pierpaolo
Tag: sicurezza, infortuni sul lavoro, immigrati