30.05.2002 | Cultura e Tradizioni

La storia «colorita» del pomodoro

Si dice, parlando di cibo, che anche l’occhio vuole la sua parte, ovvero predispone bene il palato. Un primo merito del pomodoro è proprio quello visivo, dà colore alle pietanze e rende la preparazione più vivace.

Anche se oggi è diventata quasi un’esasperazione, in cucina si è sempre badato molto alla presentazione di una pietanza, sia che avvenga in un singolo piatto che in un vassoio. Si dice, parlando di cibo, che anche l’occhio vuole la sua parte, ovvero predispone bene il palato. Un primo merito del pomodoro è proprio quello visivo, dà colore alle pietanze e rende la preparazione più vivace. è, poi, un alimento sano e gradevole ed è ricco di vitamine e di sostanze nutritive. è arrivato in Italia nel sedicesimo secolo, dal continente americano, insieme ad altre piante come la patata, il peperone ecc.
Secondo gli studiosi di botanica preventiva esattamente dal Messico attraverso il Marocco e per questo che all’inizio venne chiamato «Pomo dei Mori». Per certe sue presunte qualità eccitanti ed afrodisiache veniva anche chiamato «Pomme d’amour». Considerando il diffusissimo utilizzo che se ne fa, per la verità già da qualche secolo, viene spontaneo chiedersi come facevano prima i cuochi in Italia? Certamente doveva essere un’altra cucina. Fu anche considerata una pianta esotica ed ornamentale. Tracce del suo utilizzo in cucina risalgono verso la fine del seicento nel livornese, perché sarebbero stati introdotti dagli Ebrei fuggiti dalla Spagna ed ivi formatisi in colonia anche abbastanza prospera. Ma a Napoli dove è oggi il vegetale più popolare e consumato, non se ne hanno tracce scritte fino al 1743, quando appare in un componimento carnevalesco, e Vincenzo Corrado, nel suo «Cuoco Galante» del 1765, lo cita solo per un «coulis» e una salsa, oltre che come vegetale da imbottire e friggere. Una cinquantina d’anni dopo, però, con la Cucina Teorico—Pratico del Cavalcanti, il pomodoro comincia ad assumere un posto di rilievo nella nostra cucina e da lì un poi è un trionfo, fino ad arrivare ai giorni nostri, dove effettivamente, forse, si fa anche abuso. Si calcola che in Italia ogni cittadino ne consuma in media circa 50 kg. l’anno. Una delle ricette classiche napoletane dove è utilizzato il pomodoro è il famoso ragù. è una ricetta descritta da grandi scrittori come Eduardo De Filippo e Marotta. Il ragù napoletano è parte integrante della cultura della città, proprio come la maschera di Pulcinella ed il Vesuvio. Si tratta, dal punto di vista culinario, di uno stracotto, con un tempo di cottura di circa 10 ore, di pomodoro con un fondo grasso, uno aromatico e vino rosso, e pezzi di carne varie. è concepito principalmente per fornire un sugo per poi condire la pasta che dev’essere corta, come ziti e paccheri. Per il ragù ogni famiglia ha una sua ricetta. Ultimamente, per esempio, mi è stato suggerito di aggiungere durante la preparazione del ragù delle bucce di mele annurche, per poter avere profumi più intensi. In ogni caso si condisce un bel piatto di maccheroni, con o senza una spruzzata di cacio grattugiato, dona percezioni di tendenza dolce poco percettibile, mentre prevalgono quelle di succulenza ed untuosità ed aromaticità.
Il vino giusto, allora, dovrà essere rosso di discreto corpo, leggermente astringente e abbastanza caldo di alcol, come un Irpinia Aglianico Igt dell’Azienda Mastroberardino di Atripalda. Con la carne a ragù, invece, il vino dovrà avere più struttura e maggiore morbidezza per equilibrare la maggiore saporosità. Ed allora sarà un Aglianico del Taburno Doc della cantina di Orazio Rillo.
Tonino Aversano

FONTE: IL DENARO

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