20.10.2002 | Cultura e Tradizioni

La cucina lucchese sa valorizzare i capperi

LUCCA. Per volerli decantare, dire «Capperi che capperi», può parere una tautologia, una ripetizione che non a tutti può suonare bene. In realtà le due parole hanno un significato diverso, la seconda si riferisce alla pianta, ma la prima è un'esclamazione di meraviglia assai comune dalle nostre parti.

Per la verità si tratta di un eufemismo, sull'esempio di «cacchio», «cavolo», «caspita», «caspiterina» o tanti altri in uso. Parole che hanno la sillaba iniziale della parola volgare che si vuole scansare per «abbellire» in qualche modo la parlata. I capperi si identificano con una pianta della famiglia delle Capparidacee (250 specie), la più comune delle quali ha il nome botanico di «capparis spinosa», che cresce spontanea lungo tutto il bacino del Mediterraneo, specialmente nelle isole, formando cespugli con base legnosa, foglie intere e fiori estivi solitari di colore bianco-rosato (ricordano i fiori di pesco). Proprio i boccioli dei fiori (più piccoli sono meglio è), di colore verdastro, di forma tondeggiante con un minuscolo pinnacolo sulla cima, dal forte sapore aromatico, sono quelli usati a scopo alimentare, sia freschi che conservati sotto sale, sott'aceto o sott'olio. Per la riproduzione, si possono seminare in luoghi sassosi e con sabbia, ma anche attraverso talee legnose, oppure comprarli dai vivaisti. Sono anche ornamentali e possono interessare chi dispone di muri dove farli vegetare, che sono il loro habitat ideale. In un racconto di Carlo Lorenzini ambientato a Collodi si dice: «I capperi stavano abbarbicati sulle mura arroventate dal sole». Sono proverbiali per la loro buona qualità i capperi di Pantelleria e delle isole Eolie, ma vi raccomanderemmo - per chi vuole andare a cercarli - anche quelli di Lucchesia. Infatti, anche da noi, quando trovano le muraglie adatte, allignano benissimo. Specialmente sulle colline sono numerosi i muri delle ville, di edifici colonici, di scarpate dove i densi e ramosi cespugli pendono come verdi festoni. A Montecerlo, per esempio, a Cercatoia Alta, lungo il muro screpolato di un terrapieno, se ne trova una lunga serie; così come a San Pietro a Marcigliano dove tappezzano un muro di sostegno lungo l'accesso stradale alla villa Mazzarosa. Del resto, anche la cucina lucchese valorizza i capperi: sono usati nei crostini con fegatini di pollo, ma come ricetta tipica locale - ricorda la signora Dina Paoli della «Cecca» di Coselli - sono indispensabili nelle «rovelline rifatte». Proprio col titolo «Il cappero» (Calderini editore) il professor Giuseppe Barbera dell'università di Palermo ha fatto un libro ripercorrendo la storia di questa pianta, già citata nella Bibbia e in un testo del 1500, dove è detto che cibarsi di capperi «rende il coito vivace», abitudine ritenuta afrodisiaca anche nel nord Africa. D'altra parte il cappero è stimata anche una pianta diuretica, dotata inoltre delle proprietà di stimolare l'appetito e le funzioni digestive. «Capperi!», da tenere ben in considerazione questi versatili capperi. Fegato al vino bianco. 500 gr. di fegato, 40 gr. di pangrattato, vino bianco, prezzemolo, olio, sale e pepe. Tagliate il fegato a cubetti e fatelo rosolare in un tegame con un po' d'olio per pochi minuti, rigirandolo spesso. Versate mezzo bicchiere di vino e lasciatelo sfumare. In una scodellina mescolate il pangrattato con il prezzemolo tritato finemente, sale e pepe. Unite il tutto al fegato, mescolate bene e cuocete a fuoco dolce per circa 10-15 minuti. Servite ben caldo.

FONTE: IL TIRRENO

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