Ancora misteriosa e profonda sacralità e antichissimi riti pagani si nascondono nelle tradizioni che ardono sotto il sole di luglio
È il tempo in cui l'estate raggiunge il suo culmine e la terra come una bestia in calore mantiene le promesse, offrendo la maturazione di messi e frutti, specialmente il frumento e l'uva, che si pongono alla base dell'alimentazione contadina: il pane e il vino.
Così, a dispetto del sole che avvampa l'orizzonte e che induce all'ozio, è tempo di duro lavoro in campagna, come già raccomandava uno dei maggiori agronomi del Cinquecento, quel Giovanni Maria Bonardo, che nei recessi di Fratta Polesine alternava lo studio e l'osservazione della natura secondo le pratiche del popolo e della superstizione con inclite riunioni di accademici ed intellettuali, che avevano il colore dell'esoterismo e di una raffinatissima cultura letteraria. E dunque, tra i molti "ammaestramenti" che affollavano le pagine delle "Ricchezze dell'agricoltura" (1584) si esortava, nel mese di luglio, a "metter li formenti e li grani da minestre e segale, levar da pomèri e perèri li frutti guasti. Vangar la seconda volta le vide e sterpirle le lacrime, spianar e unir la terra che sarà schiopata dal sole, a ciò che il sole non abbruci le radici delle vide e degli albori. Tagliar legna per abbruciar tutto l'inverno. Nelli orti, in crescer di luna latuche di ogni sorte. In calar de luna, endìvie e ogni sorte de insalate e persémolo".
Erano, però, nella prima decade del mese, la mietitura e la trebbiatura, l'essiccazione e l'immagazzinamento del frumento a fare la parte del leone. E a stringere i fili della tradizione era specialmente la mietitura, a cavallo tra giugno e luglio, connessa in antico a certi riti assai diffusi in Europa e basati sulla convinzione che nel raccolto si trovasse una sorta di occulta e sacra forza, che si incarnava nell'ultimo covone o nelle ultime spighe, i cui granelli si lasciavano cadere nella terra perché si mescolassero con le sementi che sarebbero state sparse in autunno, così da auspicare un buon raccolto per l'anno successivo.
L'ultimo covone, allora, conteneva la Madonna o la Regina del Grano, tanto che alcuni popoli, i bulgari per esempio, lo infagottavano in una camicia femminile e lo portavano in processione per il villaggio, per poi gettarlo fra le acque di un fiume quando volevano la pioggia oppure bruciarlo per poi spargerne la cenere quando volevano rinvigorire la fertilità dei campi. Ed era, forse, l'eco di un rituale arcaico che prevedeva il sacrificio umano. Si pensava che lo spirito si celasse nel campo di grano, indietreggiando mano a mano che la mietitura procedeva, fino alle ultime spighe o all'ultimo covone. Rimasto, alla fine, senza più nascondiglio, lo spirito del grano assumeva allora nuova forma, proprio quella di chi in quel momento era più vicino alle spighe o al covone, l'ultimo mietitore appunto o qualche forestiero che fosse capitato lì casualmente. E costui veniva immolato e bruciato e le ceneri disperse nei campi.
Si preferì, in seguito, sacrificare animali e più particolarmente un gallo, che veniva decapitato con un solo colpo della falce (era ancora una mietitura) sul sagrato della chiesa al termine di una festosa processione.
Al termine della mietitura le ragazze mettevano insieme o intrecciavano le ultime spighe fino ad ottenere una sorta di figura dai tratti vagamente umani. E questi "bambolotti" o "trecce", come venivano chiamati, si conservavano in granaio o in casa, magari sotto un quadretto con l'immagine della Madonna, fino alla prossima mietitura.
Come nei versi di Alceo: "Nell'afa / arde tutto di sete. Suona di tra le foglie dolce la cicala... / E il cardo infiora. / Colme di desiderio le donne, / svigoriti gli uomini, mentre Sirio / dissecca il capo e le gambe" o secondo un più prosaico proverbio latino:
"Quando sol est in Leone / pone mulier in cantone / bibe vinum cum sifone".