Secondo alcuni
deriva dal termine aborigeno
pisqo, riferito al
pajaro volador (un volatile): una
metafora per descrivere gli effetti della bevanda su chi ne abusava.
Secondo altri deriva da pisquillo,
il contenitore di cuoio dove si poneva il distillato. Di fatto
attorno al secolo XIX la parola pisco definiva el aguardiente della
naturale zona “pisquera” cilena.
Questo prodotto della distillazione di uve
aromatiche (moscateles rosadas, moscateles de Asturias e
moscateles de Alejandria) trova vita in uno dei posti più secchi del
mondo, a sud del deserto di Atacama, nelle
valli di Copiapo, Huasco, Limare, Elqui e Choapa, in Cile.
Piccoli fiumi che nascono dalle Ande bagnano e modellano queste
valli, formate da terreni impervi, dove il sole è presente 300
giorni all’anno, imprimendo alle uve che lì si coltivano aromi e
sapori particolari.
A questa zona, chiamata III e IV regione, è stata riconosciuta
definitivamente la denominazione d’origine
il 15 maggio 1931 (anche se il pisco appare già in un
decreto del 1916). Le uve, una volta raggiunto il giusto grado
zuccherino, sono raccolte e fermentate: il
vino ottenuto è distillato in alambicchi di tipo discontinuo per poi
riposare in differenti botti di quercia americana e raulì
(una quercia tipica del Cile), dove, senza alterare la
caratteristica aromatica primaria, si trasformerà rendendosi più
soave al gusto.
In genere il pisco è imbottigliato e messo
in commercio con differenti gradazioni: 30, 32 e 33 gradi
per il tradicional; 36 per il tipo especial; 40 per il reservado;
43, 46 e 50 per il gran pisco.
L’aspetto deve essere trasparente e brillante o leggermente ambrato
quando effettua un passaggio in botte, anche se il colore ambrato
non è condizione necessaria per qualificare il prodotto. Tra le
marche cilene di qualità troviamo, nelle varie gradazioni,
il Pisco Capel, il Pisco Control, il Pisco
Bauzà, ed il Pisco Tres Cruces.
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