Calabria, terra dominata da monti che vanno a degradare sul mare.
Il Greco Bianco, anima del Cirò Bianco, matura nel Cirotano verso la fine di settembre e dà vini di buon corpo, con buoni sentori fruttati di mela e buona sapidità (nel resto della regione Calabria è conosciuto col nome di Guardavalle), da abbinare a piatti a base di pesce quali tonno e pesce spada. Il Greco Bianco non è da confondere con il Greco di Bianco, che è anche una DOC, diffuso a Bianco in provincia di Reggio Calabria, vitigno le cui uve vengono appassite al sole per produrre un raro vino dolce, dorato e ambrato, avvolgente e dalle note di fiori di zagara, anch'esso vino olimpionico al pari del Cirò e, al pari del Cirò, considerato tra i vini italiani più antichi del Mediterraneo al pari della Malvasia delle Lipari – con cui possiede affinità genetiche insieme alla Malvasia di Sardegna – e del Moscato di Siracusa.
Il Gaglioppo è l'anima del Cirò Rosso ed è il vitigno più diffuso a livello regionale (in passato confuso con l'altro autoctono Magliocco, diffuso nel nord della regione, e con il Frappato siciliano), anche se dà il meglio di sé lungo la costa jonica. I grappoli maturano entro la prima decade di settembre e solitamente danno un vino dal quadro antocianico simile al Nebbiolo, al Sangiovese e al Pinot Nero, con colori rubino poco concentrati, che con l'invecchiamento acquisiscono sfumature aranciate o color mattone. Gli antociani sono sì le sostanze polifenoliche responsabili dei colori dei vini rossi, ma le differenze cromatiche sono date dal rapporto delle quantità e concentrazioni diverse delle sostanze presenti nei vini – che fanno ovviamente parte degli antociani – che hanno tutte principalmente nomi di fiori o di colori: malvidina, peonidina, cianidina, petunidina, delfinidina. Possono variare non solo in base al vitigno, ma anche in base al clone, all'annata, all'età della vite e al terreno. Nel nostro caso specifico il vino è povero di malvidina, l'antociano responsabile del colore rosso più intenso, ed è più ricco di cianidina, che precipita nelle prime fasi della vinificazione (e, nella peggiore delle ipotesi, è a maggior rischio di ossidazione) e determina la particolare tonalità dei vini ottenuti da questo vitigno. Il Gaglioppo dà generalmente vini freschi di acidità, soprattutto sapidi e minerali e dai tannini abbondanti. La qualità generale dei vini è stata migliorata in tempi recenti puntando su basse rese e su tecniche produttive migliori, che nelle annate più favorevoli si traducono in vini un po' più armonici e con profumi di frutti rossi. La DOC Cirò è indubbiamente la più importante della regione, anche se in passato i vini erano caratterizzati da una forte componente alcolica e da tannini aggressivi, mentre oggi gli assaggi, pur rimanendo caldi di alcol, sono più gradevoli. Interessante è anche la versione rosata, che profuma di rosa canina e lampone e fa compagnia a carni magre, salumi, formaggi delicati e piatti tipici locali come i maccaruni.
Il Cirò da Gaglioppo si mostra versatile: gustato giovane è pieno di nerbo, mentre leggermente invecchiato in piccole botti di rovere esprime note speziate, di erbe essicate e di sottobosco, con un tannino sempre notevole ma più elegante. Si abbina bene a ragù, carni rosse, formaggi stagionati e la tradizionale 'nduja.
Alcune curiosità: il vitigno è diffuso a macchia di leopardo anche sulla costa adriatica tra Marche e Abruzzo; l'etimologia del nome deriva dal greco kalòs podòs, col significato di "bel piede", con riferimento alla forma elegante del grappolo quando giunge a maturazione; secondo alcuni studiosi non sarebbe di derivazione greca, ma risulterebbe essere un incrocio tra Sangiovese e Mantonico; il 2018 è stato designato come l'anno della Cirò Revolution, ossia della riscossa di questi vini.
Il territorio: il clima sul versante jonico è generalmente più mite e caldo rispetto al versante tirrenico, è più secco e influenzato da scirocco e tramontana. I terreni sono massimamente costituiti da formazioni argilloso-calcaree, con qualche differenza tra gli areali costiero-pianeggiante (terreni sabbiosi e argilloso-sabbiosi), collinare (terreni calcareo-alluvionali) e dell'entroterra (terreni propriamente argillosi). Possiamo trovare vigneti impiantati lungo il litorale, prospicienti il mare, dove le viti ad alberello si alternano a forme più moderne di allevamento della vite.
Le prime viti ad alberello furono introdotte, unitamente alle barbatelle e alle tecniche di coltivazione, dai coloni greci intorno all'VIII secolo a.C. La cultura greca si incontrò con la cultura enoica etrusca della vite maritata agli alberi, utilizzati per sostenere i tralci di vite, nonché quella italica delle locali popolazioni autoctone. Secondo una leggenda greca, i fratelli Enotrio e Peucezio, figli di Licaone, giunsero nel sud della Penisola Italica per mare dall'Arcadia per insediarsi lungo le coste joniche (e poi risalire lungo le coste adriatiche). Nacque l'Enotria, una terra che dal Pollino calabrese saliva a nord lungo la costa tirrenica campana, per poi spingersi verso l'interno appenninico fino alla piana del Vulture e ridiscendere verso lo Jonio lucano. In greco antico, la parola Oinotron indica un palo di legno a sostegno di una pianta di vite (un sistema di allevamento che ancora resiste nell'area del Pollino lucano, principalmente in piccole vigne ad uso domestico). Oinotron sarebbe stato tanto peculiare di questa zona dell'Italia meridionale da indurre gli antichi colonizzatori ellenici a coniarne il nome geografico sulla base di questa caratteristica. Ma l'idea che i nostri antenati italici conobbero la viticoltura dai greci è errata e non tutto il germoplasma coltivato oggi in Italia è di derivazione greca. Quando i Greci provenienti dalle Isole Egee e da Micene sbarcarono in quella che ancora non era Magna Grecia, trovarono le popolazioni italiche già operative in viticoltura che praticavano l'addomesticamento di varietà selvatiche, come la Vitis Labrusca, in quanto l'Italia era già terra di vino. Il vantaggio dei Greci fu quello di trovarsi in una collocazione geografica giusta rispetto alla zona nella quale la vite domestica era nata, il Caucaso, l'attuale Georgia. Ciò gli permise, introducendo cloni addomesticati di Aglianico, Greco, Gaglioppo e Malvasie, di sviluppare tecniche di coltivazione e vinificazione più performanti rispetto a quelle dedicate all'addomesticamento delle specie selvatiche indigene dell'Italia meridionale, meno produttive, migliorando gli impianti produttivi pre-esistenti e mettendo a dimora nuovi tralci di vite. Gli Enotri appresero pertanto conoscenze dai Greci consolidando le loro. I vigneti della Magna Grecia si spinsero fino a quella che i Romani battezzarono Campania Felix, dando vita a vini che furono ampiamente apprezzati durante l'Impero. Il nome Enotria, oltre a significare Terra di vino, è legato anche al fatto che si creò in Italia una viticoltura antecedente a quella della civiltà cretese, ribaltando così le nozioni storiche che volevano che a Creta – e in Egitto – si producesse vino prima che in Italia, dove la produzione è certificata ad esempio in Sicilia dal 2000 a.C. Gli studiosi stanno ancora dibattendo sullo sviluppo delle viti di derivazione greca in Italia, se sia avvenuto per talea o per semi. Alcuni studiosi hanno fatto osservare come il trasferimento, per mare o per terra, si possa effettuare solo in alcuni mesi dell'anno, condizione non proprio favorevole all'impianto della vite, pertanto sarebbe stato più facile trasportare i semi. E ciò motiverebbe pertanto l'attuale panorama ampelografico italiano, dato da un elevatissimo numero di varietà di vite, dato che la propagazione per semi dà tante piante, una diversa dall'altra, tutte differenti dalla pianta madre (laddove invece per talea si ottengono viti che mantengono inalterate le medesime caratteristiche della pianta madre).
I vini calabresi all'epoca dell'antica Roma erano assai richiesti e si sprecano le citazioni di studiosi e letterati in viaggio in Calabria sui vini di questa regione. Eppure stupisce come un vino considerato il più antico del Mediterraneo e in un antico passato blasonato, dalla storia e dalla tradizione millenaria, abbia poi perso smalto, sebbene il forte legame della cultura calabrese con la terra, divenendo un prodotto non più di qualità fino alla sua rinascita recente, forse perché in passato erano complici l'asperità del territorio (con coste impervie che per troppo tempo hanno limitato l'espansione della viticoltura), una situazione economica che non ha favorito la concorrenza tra produttori e una condizione di domanda interna in virtù della quale si chiedeva di non sborsare più di determinate cifre per l'acquisto di un vino. L'inversione di tendenza è stata portata avanti da un gruppo unito e compatto di produttori, che hanno permesso la valorizzazione del patrimonio tradizionale e l'instaurarsi di una nuova consapevolezza vitivinicola. In Calabria l'impiego di uve internazionali è circoscritto e limitato all'areale di Bivongi, dove comunque vengono utilizzate in uvaggio con i vitigni autoctoni, facendo in questo modo persistere il maggiore perseguimento della tradizione. La storia del Cirò ha inizio quando i coloni greci sbarcarono sul litorale di Punta Alice e fondarono il villaggio di Krimisa, dove sorgeva un importante tempio dedicato a Dioniso. La zona era molto interessante per i coloni, poiché particolarmente vocata alla vocazione della vite per la fertilità delle terre. Il Cirò odierno è pertanto il diretto discendente del vino Krimisa, il vino ufficiale della Olimpiadi che veniva offerto in dono agli atleti vincitori dei giochi. I Greci seppero dare un grande valore ai vigneti della zona, stabilendo che un appezzamento di terra coltivata a vite valesse sei volte un campo di cereali. Le due località situate lungo la costa jonica, Crotone e Sibari, avevano una particolare importanza dopo aver dato origine alla produzione del Krimisa. Lo stesso Milone di Crotone, vincitore di ben sei olimpiadi, pare fosse un grande estimatore di questo vino. Tale era all'epoca l'importanza della produzione di vino che sembra che addirittura fossero stati costruiti degli enodotti mediante tubi in terracotta che collegavano le colline di Sibari direttamente col porto dove il vino veniva direttamente imbarcato, per abbreviare così tutte le operazioni di trasporto.
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