24.07.2002 | Cultura e Tradizioni

Aragosta, la regina dei crostacei

Per esaltarne il gusto va abbinata ad un Fiano di Avellino. I crostacei rappresentano, nell’ambito della cucina di mare, le preparazioni più nobili e qualificanti. Sono cibi prelibati che richiedono particolare cura sia nella scelta che nella preparazione ed anche l’utilizzo del metodo di cottura giusto. Vengono definiti dall’involucro coriaceo che li avvolge, detto carapace, proteggendoli, e che rappresenta il loro scheletro.

In base alla forma si possono classificare in tre grandi gruppi: Macruri, forniti di addome lungo e disteso, che termina con coda a ventaglio (aragoste, astici, gamberi). Brachiuri, con addome breve, ripiegato e capotorace tondo fornito di zampe e di chele (granchio, granseola). Stomatopodi, contraddistinti da corpo allungato, appendici boccali a forma di chele e coda dentellata (canocchia). All’acquisto tutti i crostacei devono presentarsi lucidi, umidi con arti ed antenne rigide. Sono da evitare esemplari opachi, di colore giallastro con le antenne penzoloni. Senza dubbio l’aragosta (palinuris vulgaris) è la regina di crostacei. Appartiene alla famiglia dei decapodi macruri, cioè con dieci zampe. Si distingue dall’astice per l’assenza delle chele. Ha invece due antenne molto lunghe. Le cinque paia di zampe sono tutte uguali, la testa ha la superficie rugosa, capo e torace sono ricoperti da una dura corazza calcarea, divisa in sei segmenti. Il colore varia a seconda della provenienza e dell’habitat in cui vive. Quella nostrana, mediterranea, è di colore bruno mogano con due macchie gialle disposte in maniera regolare ai lati di ogni segmento del carapace. Quelle del nord Africa hanno sfumature dal verde pallido al verde oliva e corpo più appiattito. Quelle provenienti dalle coste occidentali ed orientali dell’Africa hanno riflessi dal verde pallido al verde scuro o nerastro. L’aragosta vive tra fondali rocciosi in vicinanza delle coste e si nutre prevalentemente di mitili. La pesca, tradizionale avviene per mezzo di gabbie metalliche o di vimini delle nasse, che vengono calate sul fondo provviste di esche. La stagione migliore per la pesca ed il consumo va da settembre a gennaio. Le carni dell’aragosta sono pregiate e magre ma ricche di tessuto connettivo, quindi poco digeribili. La resa è abbastanza bassa: da un’aragosta di un chilo si ricavano circa trecento grammi di parte edibile. Può essere preparata lessa in court-bouillon, cotta al vapore, alla griglia tagliata a metà secondo la lunghezza o con pomodoro, il cui sugo può essere utilizzando per condire la pasta (linguine o spaghetti). La ricetta più nota è l’aragosta alla provenzale inventata dallo chef Pierre Frisse, che prevede la cottura in una salsa a base di aglio, scalogno, prezzemolo, spezie e cognac. Personalmente la consiglio bollita con il massimo un filo di olio extravergine di oliva. Servita così dà percezioni di tendenza dolce percettibile, con una leggera succulenza e una leggera tipica aromaticità. Il vino giusto allora sarà bianco, preferibilmente spumante, con una buona acidità e con profumi abbastanza intensi e abbastanza persistenti. Si potrà scegliere allora un Fiano di Avellino doc 2001 dell’Azienda Macchialupa o uno spumante dell’oltrepò pavese. Servita cotta sulla brace, tagliata a metà, da percezioni di maggiore saporosità ed aromaticità ed allora il vino dovrà essere più morbido e con profumi ancora più intensi e persistenti. Si potrà scegliere tra un Fiano d’Avellino doc dell’azienda Torredora o uno spumante millesimato dell’azienda Berlucchi. Tonino Aversano

FONTE: IL DENARO

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